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Primavera a Topolo, foto di Antonio Center


Negazione del bilinguismo, spionaggio nelle famiglie, Gladio: la storia alle frontiere ha lasciato segni indelebili nel presente di Topolo, cittadina al confine italo-sloveno dove, anche grazie ai soldi europei, si cerca di costruirsi un futuro. La prima parte del reportage

Di Topolò, un gruppo di case arroccate su un pendio abbracciato dai monti in provincia di Udine, a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia, si parla generalmente facendo un elenco di ciò che non lo è: “Niente scuola, niente bottega, niente bar, no ufficio”. Posta, no ambulatorio, no tabacchi, no farmacia, e nemmeno la connessione a internet non sempre c’è Cosa c’è e cosa manca, ma di più su cosa c’era e cosa potrebbe essere.

Per secoli centro di culture e scambi, cerniera tra il mondo di lingua italiana e quello di lingua tedesca, Topolo, dopo la Prima Guerra Mondiale, subì molto le tempeste della politica, prima con il Fascismo, poi con la Guerra Fredda, letteralmente dissanguata. “Lo spopolamento non è stato solo un fenomeno naturale imposto dalla situazione economica – ci è stato detto più volte durante il nostro soggiorno – qui si è trattato di una consapevole strategia di spopolamento, di allontanamento della minoranza slovena, che qui era la maggioranza”.

La storia, insieme al particolare disegno geografico del paese di Topolò, dove termina la salita da Cividale, risuona ancora potente nel presente dei suoi venti abitanti. Qui ne leggiamo ventisi dice Moreno Morelli, arrivato in paese trent’anni fa con il suo progetto di installazioni artistiche specifiche del sito”. esiste, anche nei primi anni Secondo l’emittente, a metà degli anni ’90 le tensioni sono tornate a ondate e chiunque avesse a che fare con il confine o con la minoranza slovena era visto con sospetto e forse anche monitorato dalle autorità.

per tutto il 20si Nel secolo scorso i topolesi ebbero un rapporto molto ambivalente e doloroso con le autorità: furono colonizzati nelle loro case e soppressi nella loro lingua a causa della dura politica di forzare il fascismo all’italianizzazione – un destino simile al tedesco- parlanti della provincia di Bolzano. – e poi dal 1946 manipolati e presidiati da autorità centrali democratiche e servizi segreti in funzione antijugoslava, a differenza dell’Alto Adige che ha visto invece il riconoscimento graduale dei diritti delle minoranze linguistiche, gli italiani di lingua slovena nelle valli del Nateson rappresentano un sconfitta crudele di una storia dopo la guerra. “L’Europa? – ci ha detto Moreno Murelli – qui non c’era nemmeno una costituzione italiana!”.

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Solo nel 2001 la minoranza linguistica otterrà un riconoscimento ufficiale, ma ci vorrà sicuramente ancora qualche decennio per dipanare l’arazzo di fragilità, sospetto, vergogna e diffidenza, affinché gli errori siano, se non sanati, almeno meno gravi, e per ottenere la piena cittadinanza.

“Sebbene qui si parli sloveno ovunque”, racconta l’architetto Donatella Rotar, cresciuta a Kludig, a pochi chilometri da Topolo, “i miei genitori ci hanno proibito di parlarlo, e mio padre ha chiesto a mio fratello di essere chiamato BabàNegli anni ’60, in piena Guerra Fredda, gli sloveni furono accusati di essere partigiani di Tito, sospettati di avere legami nemici transfrontalieri, sotto la sorveglianza di membri dell’organizzazione segreta Gladio.

Moreno Morelli © Antonio Senter / OBCT

Moreno Morelli © Antonio Senter / OBCT

Moreno ci mostra una carta no. 2443, emanato il 1° agosto 1946 per il patriota intitolato alla battaglia di Piemonte: “Il III Corpo Volontari della Libertà divenne poi Gladio, e sappiamo di quali altre faccende si occuparono poi questi patrioti”. La storia è stata per Miorelli il richiamo più forte a stabilirsi nella Valle del Natisone nei primi anni ’90: appassionato, meticoloso e creativo nel cercare e trovare connessioni, poeta, amico e collaboratore di Andrea Pazienza, fondatore della Stazione Topolò, sottolinea con insistenza quanto sia complessa , complessa e dolorosa storia ha attraversato questa regione d’Italia. .

Dalle finestre qui si vede un’immagine del Kolovrat, la trincea che gli italiani dovettero cedere agli austriaci nell’ottobre del 1917 durante la famosa disfatta di Caporetto. Ora c’è, a Kobared (Caporetto sloveno), dove i friulani la domenica vanno a mangiare, visitare le gole dell’Isonzo, fare benzina, ma l’idea dei confini è rimasta lì, tangibile, tangibile, soprattutto per quello che sarà accadere nei decenni successivi.

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“Fino alla Grande Guerra, qui, i confini linguistici non coincidevano con i confini politico-militari”, spiega Donatella, ideatrice e curatrice di SMO (Slovensko multimedialno okno/ Finestra multimediale slovena) a San Pietro al Natisoni, un museo narrativo dedicato al paesaggio culturale dalle Alpi al mare, e dal Mangart al Golfo di Trieste. Fino all’inizio del 20si Un secolo fa, sebbene il confine tra il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico fosse a pochi passi, gli abitanti di queste valli avevano rapporti molto più stretti con i paesi “d’altra parte” che con il territorio vallivo “su di qua”, in Benecia o in friulano Slavia. Raccontando come questi confini permanenti toccassero anche la vita religiosa, spiega Donatella, D fatto Diocesi transfrontaliere e cimiteri nell’impero assegnati, ad esempio, anche ai cittadini del regno.

La vera sconfitta qui iniziò con il fascismo e la soppressione della lingua di quel dialetto sloveno che era la lingua madre della maggior parte degli abitanti delle valli del Natison. E continuò con l’arrivo della Repubblica Democratica nel secondo dopoguerra con una strategia di svuotamento. «Qui avevo bisogno di un permesso del ministero della Difesa anche solo per abbattere un albero», racconta Moreno Miorelli. “E la vita era dura anche per quei sacerdoti che coltivavano la cultura locale, ma erano odiati con la forza, dalla Nato, ed erano sotto sorveglianza speciale”.

Da qui la perdita di popolazione, che è scesa da 400 persone a venti volte. E con i residenti le attività sono sparite, e l’ultimo bar ha chiuso quarant’anni fa. Ha subito un destino simile a vent’annisi Un secolo fa, tutta l’area che occupava le pendici del Collovrat e del Monte San Martino si smazzava: gli uomini andavano nelle miniere del Belgio, e le donne nei lavori domestici in tutta Europa.

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«Tuttavia Topolo ha sempre accolto iniziative controcorrente, come l’arrivo di trecento pecore dalla Macedonia a metà degli anni Settanta», ricorda Donatella. Nel 1975, colui che sarebbe poi diventato suo marito, l’ingegner Renzo Rockli, collabora alla nuova amministrazione comunale di sinistra (unico esempio in tutta la valle, in un contesto fortemente democristiano, con tendenze a partiti di destra) in ideazione di un progetto pilota per la manutenzione dell’area, creazione di opportunità di business, sviluppo di nuovi business. Il “Progetto Pecora” è stato pioniere dei progetti transnazionali europei, in quanto comprendeva corsi di formazione sulla tosatura, la lavorazione della lana e la tessitura, e anche se negli anni è fallito, tutti qui lo ricordano con orgoglio. «Per noi è stato un segno che la comunità di Topolò era viva, nonostante tutto», sorride Donatella.

E infatti la stazione arriverà dopo, con artisti da tutto il mondo, ma anche la ristrutturazione di mezzo Paese grazie al finanziamento europeo dell’albergo diffuso, il restauro di paesaggi e sentieri nell’ambito di altri progetti europei. Ma questa è un’altra storia.

(Lui segue)

Il reportage da Topolò comprende:

Galleria fotografica

e reportage audio

Questo contenuto è stato pubblicato nell’ambito del progetto “Work4Future” finanziato dall’Unione Europea (UE). L’Unione Europea non è in alcun modo responsabile delle informazioni o delle opinioni espresse nell’ambito del progetto. La responsabilità dei contenuti è esclusivamente di OBC Transeuropa. Vai a “Work4Future”

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